Potosí, polvere d’argento sulle Ande

Bolivia Città Cultura
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16/03/2018

Potosí si svela in lontananza dall’alto dei suoi oltre 4.000 metri sopra il livello del mare. Annidata tra le Ande boliviane, si dice sia la città più alta del mondo.

Curva dopo curva, il bus Trans Emperador ci conduce verso il centro abitato che si dispiega in un saliscendi di colori scottati dal sole: dal rosso all’arancio, dall’ocra all’avorio rosato, dal bronzo all’oro. Ma è d’argento la storia di Potosí. Una storia di magnificenza e declino, di tragedia e fierezza.

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Viaggio a Potosí in Bolivia, l’arrivo

Con Potosí, lo ammetto, non è colpo di fulmine. La periferia mi saluta con baracche, minuscole case improvvisate e scheletri di palazzoni fatiscenti in costruzione (o forse incompiuti, fermi lì da chissà quanto).

È un agglomerato di mattoni rossi su terra rossa, lontano anni luce sia dalle architetture immacolate di Sucre, la Ciudad bianca della Bolivia, sia dal candore spettrale del deserto di sale a Uyuni, pur trovandosi a non più di tre-quattro ore su strada da entrambe le città.

Ai margini di Potosí c’è chi cammina con la schiena china su e giù per viuzze malconce e chi sta seduto sul ciglio della strada o accanto a mucchi di rifiuti.

Ben diverso il centro storico, patrimonio Unesco dal 1987, un intreccio di vie lastricate fra palazzi coloniali e ricche Chiese che trasudano un passato glorioso.

Ad unire sotto un unico cielo le anime contrastanti di Potosí c’è il Cerro Rico, la montagna che regna sovrana sulla città, presenza rassicurante e inquietante ad un tempo. È un punto di riferimento insindacabile ovunque io volga lo sguardo, eppure mi turba con quell’aura di negatività che l’avvolge. Di sicuro c’entrano le miniere d’argento ancora in attività che ne feriscono i crinali.

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I quartieri cittadini più impavidi si abbarbicano alle pendici del Cerro Rico, ma si diradano al crescere dell’altitudine fino a scomparire del tutto, come inghiottite dalle viscere della montagna. Lassù c’è posto soltanto per le miniere d’argento.

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Cerro Rico, la montagna sacra

Avverto tutta la potenza del Cerro Rico dal mirador della Iglesia de San Francisco, nel cuore di Potosí. Non una semplice terrazza sulla città, ma un punto panoramico “diffuso”, una serie di stretti passaggi che si snodano sul colmo della volta a botte e fra le cupole laterali che chiudono in cielo la Chiesa.

È surreale camminare tra le tegole, con la città intera ai miei piedi in ogni direzione. Il cielo è blu, un vento gelido mi scuote. Dall’alto dei suoi 5.000 metri, la cima del Cerro Rico veglia instancabile su Potosí.

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Guardo i fianchi di quel gigantesco cono brullo tagliati dalle miniere ancora attive. Rabbrividisco pensando al brulichio di mineros all’interno dei cunicoli oscuri. Gli stessi in cui sono entrata io con la guida esperta di un ex minatore, esperienza imperdibile di un viaggio a Potosí in Bolivia: una vampata di adrenalina e un macigno sul cuore di cui ti racconto in questo post.

Il Cerro Rico ricorre anche nell’arte. Nella Virgen del Cerro ad esempio, tela settecentesca di un pittore locale, conservata nel museo della Casa Nacional de la Moneda. La trovo illuminante. Raccoglie l’animo di Potosí intorno alla sua montagna e narra l’incontro della spiritualità andina con il credo cristiano.

Rappresenta la Madonna e la montagna in un’inedita sovrapposizione, la veste della Vergine che ricalca il profilo del Cerro Rico. Ne viene fuori una commistione di fede cattolica e sacralità quechua che fa della Madonna la Pachamama (Madre Terra) adorata dai nativi andini.

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La città che “vale un potosí”

I conquistadores spagnoli a metà del Cinquecento, quando scoprirono l’argento custodito nelle profondità della montagna che i quechua chiamavano Sumaj Orcko (“montagna bella”), fondarono ai suoi piedi una città destinata a sfornare ricchezze per l’impero. La montagna fu ribattezzata Cerro Rico (“collina ricca”), Potosí prosperò e crebbe fino a diventare una metropoli dell’epoca.

In tutte le colonie spagnole d’America e a poco a poco nel resto del mondo si diffusero le monete d’argento coniate dalla Zecca della prodigiosa città, i potosís. Da qui l’espressione spagnola vale un potosí, in uso ancora oggi per indicare ciò che vale una fortuna.

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Ma sotto la patina dorata, anzi argentata, di Potosí si nascondeva il sacrificio dei minatori e degli operai delle fonderie, nativi e schiavi africani. Costretti a lavorare in condizioni disumane, a spremere la montagna all’inverosimile, a consumarne le viscere, finivano per morire di stenti. Milioni di persone persero la vita così, tragedia dimenticata del colonialismo europeo in America.

Dalle monete coloniali spagnole a quelle nazionali boliviane, la Zecca di Potosí rimase in funzione fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando la città era in declino da ormai cent’anni per via dell’esaurirsi delle principali vene d’argento nel Cerro Rico.

Oggi resta il museo, nell’immenso edificio della Casa Nacional de la Moneda. Restano i soffitti anneriti delle fonderie, i poderosi macchinari in legno e a vapore, le esposizioni di raffinata argenteria, le tele di artisti locali, le raccolte di minerali e le monete di ogni foggia. È un viaggio nel tempo, un balzo nel cuore pulsante della maestosa e truce Potosí di quattro secoli fa.

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Su e giù per le vie coloniali di Potosí

A Potosí le strade salgono e scendono di continuo, costringendomi a rallentare il passo per preservare fiato ed energie. L’altitudine si fa sentire. Per non parlare dello smog: vecchi pulmini di importazione asiatica sfrecciano uno dietro l’altro, lasciandosi alle spalle scie di fumo nero.

Nei trafficatissimi incroci l’aria si fa irrespirabile e mi chiedo come facciano le donne di etnia quechua a vendere succhi e spuntini, placidamente sedute agli angoli delle strade.

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Tutte raccolgono le chiome scure in due lunghe trecce laterali che spuntano dai cappelli a tesa larga di paglia intrecciata. Indossano gonne robuste al ginocchio e bluse o maglioni in lana. E portano il tradizionale aguayo legato in spalla, un grande fagotto di stoffa resistente, rigato di colori sgargianti, dentro cui trasportano di tutto: effetti personali, cibo, foglie di coca, pargoli.

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Indifferenti al mio passaggio, le donne quechua hanno occhi soltanto per la città. E la città reclama anche il mio, di sguardo.

In centro mi rapiscono gli archi e i portoni finemente ornati. I balconi e le verande in legno scuro, a volte dipinto di blu o di verde, che traboccano dalle pareti dei palazzi storici. L’edificio color senape del Municipio e l’immensa Cattedrale su plaza 10 de Noviembre.

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Mi incantano i fregi scolpiti nella pietra intorno al portale della Iglesia de San Lorenzo de Carangas. L’arioso colonnato bianco che cinge in discesa lo spazio terrazzato di plaza 6 de Agosto, fra aiuole, fontane e panchine. La facciata color pesca della Iglesia de la Merced ricamata di campane sospese.

L’architettura coloniale barocca e neoclassica abbraccia l’intero centro cittadino, diffondendo nell’aria un sentore di fulgido splendore, impolverato da secoli di incuria.

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7 commenti
  1. Rispondi

    Donatella

    16/03/2018

    Meraviglioso racconto. Bellissimo il dipinto della Virgen del Cerro!

    • Rispondi

      francivinai

      16/03/2018

      Grazie Donatella! Concordo, è una tela che trasmette tanta energia… tutta quella di Potosí! 🙂

  2. Rispondi

    Viviana

    16/03/2018

    Visitare questi luoghi per me è un sogno!

    • Rispondi

      francivinai

      16/03/2018

      Ciao Viviana, spero tanto che tu possa realizzare il tuo sogno! 😉

  3. Rispondi

    stremamma

    16/03/2018

    …meraviglia…tra le mete da raggiungere…prima o poi!

    • Rispondi

      francivinai

      16/03/2018

      Sono felice di averti portato con me in questo angolino di Bolivia! 😍

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FRANCESCA VINAI
Italia

Ciao, benvenut* su Takeanyway. Sono Francesca, di professione giornalista e creativa, per passione viaggiatrice in cerca di storie. Viaggio per abbattere frontiere, per catturare scorci, per nutrirmi di incontri, per scoprire curiosità vicine e lontane, da raccontarti qui. Lasciati ispirare e fai buon viaggio.

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