Buio, insidioso, maligno. La gente dell’isola non lo ama, il mare, lo teme. Parrebbe una contraddizione in termini, ma c’è un perché che ti svelerò tra poco. Quel che è certo è che se vai a Bali in cerca della sua bellezza più genuina, non la troverai lungo le spiagge. La incontrerai alle pendici di vulcani e risaie, nelle botteghe ai margini della foresta, nei sorrisi per strada, nei templi di pietra e paglia, in una tazza di caffè al ginseng.
E allora dimentica i surfisti in cartolina, la vita da resort, le ore piccole a ballare sulla sabbia. Faremo un viaggio nel cuore pulsante di Bali, l’unica delle oltre 17.000 isole indonesiane a perpetuare il credo induista nel Paese musulmano più popoloso al mondo.
In questa mappa ti mostro il nostro itinerario di viaggio a Bali oltre le spiagge con tutte le tappe. Prontə a partire?
Caffè e batik nei dintorni di Ubud
Fuggiamo dal sud, dalla caotica Denpasar, capoluogo dell’isola, dalle affollate spiagge di Kuta, dai resort di Nusa Dua. Andiamo in cerca dell’anima vera di Bali. Chissà che non si annidi fra le montagne, che non si irradi fra le campagne intorno a Ubud, centro della vita culturale e artistica balinese. È qui che sorgono villaggi in cui si dipinge, si intaglia, si forgia, si tesse. E si coltiva.
Fra piantagioni di caffè, tè e spezie sostiamo in un piccolo centro produttivo. Camminiamo sulla ghiaia accanto ad aiuole che esplodono di vita. Un gallo zampetta qua e là, le casette per gli uccelli pendono dagli alberi, un intreccio di rami e foglie sopra le nostre teste ombreggia il sentiero a mo’ di pergolato.
Scopriamo alcune delle produzioni tipiche della zona, a cominciare dal Kopi Luwak, tra i caffè più rari e costosi al mondo, che nasce dalle bacche di caffè parzialmente digerite e defecate dallo zibetto delle palme. Non vedo i piccoli mammiferi all’opera ma intuisco che il lucroso business li ha resi schiavi di una produzione che non me la sento, nel mio piccolo, di incoraggiare con l’acquisto.
Molto meglio il caffè al ginseng. O il tè allo zenzero o quello alle radici di limone. Per non parlare delle banane impanate e fritte, pisang goreng. Una tira l’altra.
E cosa dire degli artisti all’opera? In una bottega artigiana del batik acquisto una delle coloratissime tele locali: stoffe decorate con una particolare tecnica che impiega la cera per coprire le aree che non si vuole assumano una certa tinta, procedimento che si ripete per ogni bagno di colore. Ne vengono fuori opere nitide e sgargianti che raccontano la natura esuberante di Bali e la sua spiritualità.
Demoni da placare, dei da allietare
Ad una manciata di chilometri dal centro di Ubud, una fitta foresta cela il tempio di Goa Gajah, la “grotta dell’elefante”.
Capitiamo inaspettatamente nei preparativi di una festa e ci intrufoliamo con cautela. Saliamo e scendiamo scalinate, gironzoliamo tra oasi di meditazione e fiori scintillanti. Gli alberi sacri, dalle enormi radici fuori terra, sono segnalati con tessuti a scacchi intorno al tronco, un invito al rispetto.
Tutt’intorno è un affaccendarsi operoso e lieto che coinvolge l’intera comunità del villaggio. Le donne cucinano e compongono elaborati cestini in foglie di palma o di banano per le offerte votive. Gli uomini costruiscono capanni provvisori in canne di bambù, muovendosi agili come gatti a qualche metro da terra.
Lì vicino ecco la piccola grotta, bocca spalancata di demone scolpita nella pietra, sacra sin dalla notte dei tempi, almeno da mille anni secondo gli studiosi. A lato dell’ingresso, appoggiati alla base di una statua, alcuni cestini con frutta, riso e fiori. Per placare i demoni, per allietare gli dei.
Sull’isola i cestini delle offerte si vedono ovunque, ben oltre i confini dei templi: i balinesi le preparano ogni giorno e le lasciano davanti alle porte di casa, ai ristoranti, agli alberghi, ai negozi di souvenir.
La fede a Bali permea ogni aspetto della vita quotidiana, fondendo l’induismo con il credo animista dei più antichi isolani. Ci spiega la nostra guida – si fa chiamare Su ma non ho modo di capire come si scriva – che il mondo è diviso in due e una parte non può esistere senza l’altra: ci sono il giorno e la notte, il cielo e la terra, il bene e il male. È essenziale mantenere l’equilibrio fra gli opposti, per questo si rende omaggio in egual misura agli dei e ai demoni.
Montagna e mare non sfuggono alla dicotomia balinese: quando le divinità terminarono la creazione, bandirono i demoni e gli spiriti maligni nelle profondità delle acque e si ritirarono in cima a vulcani e montagne. Ecco spiegata l’avversione degli isolani per le spiagge e il mare, casa degli inferi.
Non sempre l’equilibrio tra bene e male, tra giusto e ingiusto, è facile da stabilire. È il caso delle controversie tra balinesi che non trovano risoluzione nell’ambito della famiglia o della comunità del villaggio. Un tempo casi come questi venivano trattati dalla Corte Suprema di giustizia di Bali, che si riuniva a Klungkung nel padiglione di Kertha Gosa.
Non il tribunale che mi sarei aspettata – solido palazzo, sale scure, porte chiuse – ma un arioso padiglione sull’acqua. Il soffitto interno del tribunale, costruito nel Settecento, è affrescato con scene che raccontano le punizioni riservate ai peccatori all’inferno: corpi immersi nella lava incandescente, mani tagliate, lingue strappate, in base alle colpe commesse.
Templi di Bali, gli imperdibili
I templi, i cosiddetti pura, sorgono a decine di migliaia su un’isola grande poco più della Liguria. Nei villaggi, nei cortili di casa, lungo stradine polverose, nelle foreste, a picco sul mare, sulle sponde dei laghi: non c’è luogo al mondo con una simile concentrazione di luoghi di preghiera.
Il tempio è uno spazio sacro a cielo aperto, cintato da mura e sorvegliato all’ingresso da statue di demoni, incaricati di tener lontani gli spiriti malvagi. All’interno si susseguono diversi cortili, contenenti padiglioni, altari e reliquiari, in cui svettano altissimi i meru, pagode in legno su basamenti di pietra vulcanica, con più tetti sovrapposti in paglia di riso, che si assottigliano verso l’alto.
Per entrare in ogni tempio – con sarong in vita a coprire le gambe, una sorta di pareo, tassativo anche per gli uomini – attraversiamo un portone in mattoni e pietra tagliato a metà nel senso dell’altezza: una spaccatura che ribadisce come nulla di ciò che è singolo possa considerarsi perfetto senza l’altra metà.
Varcare la soglia di un tempio balinese è un’esperienza di autentica distensione. I rumori del mondo esterno si spengono, aleggia quiete e armonia.
È ciò che proverò nel pura più ammaliante di tutti, il Tempio Madre, che voglio serbare per ultimo in questo nostro viaggio. Ma è anche ciò che avverto a Mengwi nel pura Taman Ayun, letteralmente “giardino galleggiante”, il secondo tempio di Bali per grandezza, delimitato da fossati d’acqua in cui riposano ninfee e fiori di loto.
O nel pura Dalem di Alas Kedaton, uno dei templi immersi nella penombra della foresta tropicale abitata da famiglie di sfrontati macachi, sempre pronti ad arraffare qualcosa ai visitatori più incauti.
O, ancora, nel pura Gunung Kawi Sebatu, il più grande monumento antico di Bali, originario dell’anno 1000. Il gorgoglio dell’acqua nelle vasche per le purificazioni rituali, alimentate da fontane in pietra, gli ombrelli cerimoniali gialli e bianchi lasciati aperti per fare ombra agli dei, gli altari e le pagode immerse fra risaie e palmeti. Non manca nulla.
Qualcosa manca, invece, al pura Tanah Lot: il silenzio. Sulla costa sud di Bali, questo tempio è costruito in cima ad un enorme sperone roccioso schiaffeggiato dalle onde, importante avamposto contro le forze degli inferi che abitano il mare. Ma è anche una delle attrazioni preferite dai turisti, che assalgono il tempio all’ora del tramonto inquinandolo di parole, troppe, e di foto e di video, quando il profilo nero delle pagode ritaglia lo sfondo dorato del cielo.
Le risaie di Bali e i warung vista vulcano
Accanto ai templi, l’altro segno distintivo della bellezza fulgida di Bali sono le terrazze di riso. Un vero capolavoro di architettura rurale, realizzato nei secoli dai contadini, che ancora oggi svolgono a mano tutte le operazioni di coltivazione e raccolta.
Ne incontriamo molte viaggiando a nord di Ubud, nei dintorni di Tegallalang. Le floride terrazze d’acqua e riso sono enormi gradini con argini in pietra e argilla, che si inerpicano su per ripidi pendii. È un tripudio di verde in tutte le gradazioni.
Proseguendo ancora più a nord, in direzione del vulcano Batur, percorriamo una strada su cui affacciano casupole ad un piano, botteghe senza fronzoli e negozi coperti da tetti in lamiera.
Sostiamo a Kintamani in un warung per gustare per poche rupie degli involtini fritti di verdure e carne (lumpia) e del riso saltato con pollo e verdure (nasi goreng). È una meraviglia starsene sulla terrazza del ristorantino affacciato sul vulcano e sulla valle sottostante punteggiata di frangipane, bouganville, ibisco, orchidee, palme da cocco, banani. E risaie, naturalmente.
La montagna sacra e il Tempio Madre
Tappa imperdibile di un viaggio a Bali è il pura Besakih, il Tempio Madre. A circa 1.000 metri di altitudine, sorge alle pendici del vulcano attivo Agung, montagna sacra perché Olimpo degli dei balinesi. Con i suoi 3.142 metri, è la cima più elevata dell’isola, tanto da scorgersi da Gili Trawangan, isolotto nello stretto di Lombok a quasi 60 Km in linea d’aria.
Ricordo un tramonto sulla spiaggia di Gili Trawangan con lo sguardo fisso sull’Agung. La marea che sale a vista d’occhio, l’acqua che si insinua rapida tra le rocce, torna padrona sui coralli, mi lambisce le caviglie, famelica. Il sole che si tuffa in mare, inchinandosi a quel cono perfetto del vulcano Agung.
Il pura Besakih a Bali è un complesso di templi nel tempio, posti su più livelli a terrazza. La scenografia è da Oscar. Restiamo immobili per un tempo lunghissimo ad osservare una carovana di donne e uomini percorrere in un continuo saliscendi sentieri e scalinate del tempio.
Le donne portano elaborati cesti sul capo con le offerte votive. Indossano camicie leggere e ricamate (kebaya) sopra sarong lunghi fino alle caviglie, con una fascia di tessuto colorato in vita.
Il via vai è incessante, il brulichio ordinato e composto.
Gli uomini cantano solennemente con il sacerdote, di bianco vestiti, in uno degli spazi sacri adibiti alla preghiera.
Nuvole leggere rotolano giù dalla vetta dell’Agung. Portano con sé una luce eterea e, forse, il respiro degli dei.
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